Sto sudando freddo, mi gira la testa e non deglutisco, è tutto bloccato. Respiro, respiro, respiro. Guardo la finestra, la finestra c’è, si può scappare di lì. “Dove vado?”, domanda idiota, in questa situazione.
Mi appoggio alla porta e seguo il muro, barcollo. In tre cerchiamo la via del bagno, io vinco. Entro, lavandino, vomito. Cerco di sollevare la testa, vomito di nuovo. Respiro, respiro, respiro. Forse ho un infarto.
Le mani me le sento piene di bollicine che frizzano sotto pelle, è l’iperventilazione. Lo so nel momento in cui riesco a pensare, ma poi il pensiero fugge e torna il panico.
Mi devo calmare.
Mi siedo sul cesso.
Respiro.
Ripenso.
A Marzo uscivo la mattina per comprare il pane e i beni di prima necessità. Le strade quasi deserte, scoprivo in quei giorni quanto fosse grigia la mia città, anche se era sul mare, anche se le vernici colorate delle villette attenuavano lo squallore.
Facevo un giro ormai organizzato. Prima un po’ di spesa, poi dal giornalaio, poi dal tabaccaio.
Poco prima della crisi stavo per smettere di fumare, ma poi ho capito che non era il momento giusto. Così, come tanti, viaggiavo con le stecche sotto il braccio perché se avessero sospeso la distribuzione del tabacco lasciandomi a secco, ero certo, sarei impazzito.
Chi fumava pesante, chi leggero, il poco di socialità si sviluppava solo quando eri costretto a fare una fila per gli acquisti, ma con riluttanza. Quasi tutti fingevano di guardarsi le scarpe, soffocando nelle mascherine.
Quindi ci si salutava da dietro il proprio tappo, una sciarpa o qualcosa di più ospedaliero. Certe persone le riconoscevi solo dallo strano colore di capelli, che in quel periodo andava tanto di moda. Presto li avrebbero avuti scarmigliati e grigi come tutti gli altri, visto che dal 10 marzo era stata imposta la chiusura anche ai parrucchieri.
Il grigiore comunque era soprattutto nel cuore. Le emozioni sedate, i progetti rimandati. Mi sentivo in colpa anche solo se mi trascinavo in spiaggia per farmi consolare dal mare in tempesta. Appena appariva una immagine antropomorfa all’orizzonte, temevo di dover dare giustificazioni per la mia fuga da casa, per essermi attardato fuori senza le ragioni di urgenza e necessità previste per decreto.
Si poteva fare attività motoria, lo ricordo bene quanto mi venne da ridere in proposito. Potevi “sgambare”, come i cani. In aree adeguate, aperte, mantenendo le distanze. Lo stesso ti sentivi un furfante e se incrociavi qualcuno, sapevi che ti stava facendo una lastra sulle reali intenzioni. “Non è che quello se ne fotte del rischio contagio con la scusa di fare jogging?”, ecco quello che pensavano tutti, girando ormai quasi in pigiama, che tanto era uguale.
A quel tempo facevo il giornalista, da qualche anno, freelance. Avevo un nome e un mestiere, non potevo lamentarmi. Il giornalismo in Italia era cosa rara e i giornali carta da culo da tempo, eppure riuscivo ancora ad essere professionale e soddisfatto del mio lavoro, mantenendo una famiglia. E per un giornalista era davvero già tantissimo.
Il giornalismo per me era la curiosità che alimentava i risvegli. Più dell’odore del caffè, più della colazione, più di un appuntamento galante, da sempre esplodevo di energia ed entusiasmo soprattutto quando nella mia mente contorta, spesso asociale e disgregata, sorgeva come il sole una domanda pungente: "Perché?"
Così era successo che avevo messo in piedi anche un blog, con un amico. Lui informatico, ma anche mosca curiosa capace di incaponirsi e scrivere pezzi leggeri e accattivanti. Io più votato a fare del giornalismo indipendente da regalare al popolino, il dovere morale della mia vita.
Il blog, “Nascere e scrivere”, era anche piuttosto seguito. Qualche articolo mi era valso dei riconoscimenti, altri qualche minaccia, ma attorno ad esso si era creata una piccola rete di cittadini attenti e talvolta agguerriti che mi dava spunti e seguiva i miei, cercando di costruire una società meno miserabile e corrotta per tutti.
Quando ci cadde addosso il decreto “Fermitutti”, (lo ho rinominato io così), dopo qualche giorno di scompiglio e nebuloso senso di sonno indotto, la rete di cui sopra aveva iniziato a chiedere a me, proprio a me, di fornire un quadro che desse senso al delirio in cui eravamo stati calati in pochi giorni.
Chiedevano a me, come se avessi risposte. Non le avevo. Avevo una marea di dubbi, chiamiamoli sospetti. Un sospetto, quando si tratta di faccende globali come l’annuncio di una pandemia, è consistente come la mollica del pane nell’acqua da due giorni.
Io ero stremato dai sospetti. Quando venne dichiarata la pandemia, ne ero consumato. Ogni indizio si incatenava ad un altro, per poi agganciarsi impropriamente ad un altro, mandandomi completamente fuori di testa.
Spesso facevo l’alba tra i miei deliri, cercando indizi e trovando il nulla. Silvia veniva a darmi la buonanotte quando ero ancora davanti al pc e la sola fonte di luce di tutta la via, era il mio monitor. Poi andava a cullare le gemelle, per rassicurarle, per mietere le loro paure al posto mio, che non avevo più attenzione per nulla che non fosse il maledetto virus.
Silvia. Come mi manca, ora.
Una mattina di sole, andai a trovare mia madre che non era più del tutto autosufficiente. Distratto e stralunato dai pensieri che avevano colmato ogni mia ragione d’essere, visto il carico di domande che si portavano dietro e per le quali le istituzioni mi rispondevano solo puttanate, non mi accorsi che il giardino era particolarmente trasandato. Non aveva rasato l’erba, il tavolo da pranzo era sporco di smog e pioggia vecchia, una sedia ribaltata. Non era da lei, che ormai viveva solo d’amore per la casa, per me e mio fratello, e per i suoi nipoti. Davvero, non ero in grado di prestarvi attenzione ed entrai dalla porta della cucina planando completamente dalle mie nuvole.
“Mamma?”
Apparve, scarmigliata e in vestaglia. Erano le dieci del mattino. L’orologio sulla parete era fermo. Le pile le cambiava mio padre e da che era morto non c’era più stato verso di convincerla a farle cambiare da me o da mio fratello.
“Ti ho portato un po’ di spesa. Oggi la fila al supermercato arrivava fino al parcheggio di Piazza Matteotti”. Ero lagnoso, me ne rendevo conto, ma non ci badavo. Ormai ero al limite della misantropia.
Si avvicinò improvvisamente e cogliendomi del tutto di sorpresa, mi diede uno schiaffo che non ricordavo da quando ero un ragazzino indisponente e anche mezzo delinquente.
Quel giorno mi accorsi che il mio ostinato porre domande poteva costare caro e forse, ero stato solo fortunato a non averlo capito prima. Non vivevo in una zona particolarmente mafiosa, o almeno, la mafia da noi assumeva forme talmente borghesi da avere reazioni del tutto miti, verso chi eventualmente andava a pungolare il loro quieto vivere. Il mio giornalismo quindi non mi aveva mai esposto socialmente tanto da sentire il dolore di una perdita, di una tragedia imminente. Lo schiaffo di mia madre invece, era stato bruciante nell’anima. Io mi aggrappavo a lei da che ero nato.
“Ma come puoi dire certe cose?” mi chiese, due lacrime sotto gli occhi stravolti che notavo solo ora.
Ci misi qualche istante a comprendere come la mia attività di blogger, fatta di insistenza e di un generoso rompere le palle quotidiano, ponendo domande scomode e per le quali suggerivo risposte altrettanto scomode, aveva scavato un solco nella comunità a cui appartenevo.
Il titolo del blog era cambiato da “Nascere e scrivere” a “Nascere e resistere”. Mi era forse presa la mano, ma tutto sommato avevo le mie ragioni. Fatto sta, che mettere in dubbio il valore della quarantena forzata, l’onestà dei governi nel raccontare come stessero davvero le cose, le soluzioni politiche intraprese per arginare il virus pandemico, le affermazioni dei politicanti, era diventato il mio pane quotidiano ed anche un nutriente ricco per un discreto numero di oratori. D’altro canto, il quieto vivere in apnea di chi aspettava che la gabbia si aprisse e che il virus scomparisse dalla faccia della terra, veniva messo in crisi dall’approccio critico che promuovevo. Il mio intento di stanare il ladro di galline veniva scambiato per sprezzo per la vita umana e anche l’ironia, il sarcasmo o l’uso del paradosso, diventavano le prove di un mio forsennato odio, secondo loro, per la vita dei poveracci, soprattutto anziani, che stavano morendo negli ospedali.
Mi madre aveva saputo di quanto scrivevo da sua cugina, che era stata informata da una zia, che lo seppe da una nipote. Non per essere maschilista, ma capii allora che le donne hanno un telefono senza fili più potente dei satelliti di Google.
Delusione, rabbia, disgrazia, si erano abbattute su di lei, lasciandola inerme a guardarmi dal basso verso l’alto, seduta su quella poltrona di pelle consunta che non voleva dare via. Non aveva parole per giustificare il mio comportamento con amici e soprattutto con i parenti e la vergogna era davvero un peso insopportabile.
Era solo l’inizio.
Poi si attese Pasqua e che questa passasse con tutti i sacramenti e i festeggiamenti si consumarono per lo più con videochiamate di Skype.
Dopo di questa, eravamo sicuri, il governo ci avrebbe rilasciato perché era assurdo pensare di tenere una intera nazione in ostaggio per settimane. Il costo di una tale operazione era per forza superiore all’acquisto di qualsiasi attrezzatura medica da lì, all’eternità.
E invece no.
L’idea di ascoltare il Premier a reti unificate mi dava il vomito, ma mi sedetti accanto a mia moglie e la tenni per mano, spedendo le bambine a giocare con le Barbie. “Carissimi concittadini,...” e già avevo capito, dal piglio che gli lessi sul viso, che i miei progetti di saltare in macchina e lanciarmi spedito con la tavola da surf verso il primo spot utile, erano da considerarsi abrogati.
Pochi giri di parole, per fortuna, per dire alla cittadinanza tutta che non essendo ancora scampato del tutto il pericolo, il calo dei casi non era sufficiente, non si poteva tornare alla nostra vita. Troppo alto il rischio di vanificare gli sforzi fatti fino ad ora.
Attoniti, non ci venne neppure di commentare.
In una situazione simile ingoi l’aria, e vai avanti. Lo fai per le tue bambine cui devi trasmettere che va tutto bene. Lo abbiamo fatto anche quando abbiamo saputo che altre nazioni europee iniziavano a loro volta a trasformarsi in luoghi di clausura, dove l’unico fine sembrava la conta dei morti per farne un bollettino ogni otto ore e la rinuncia ai più elementari diritti civili avveniva in maniera spontanea.
La mattina che partii, baciai Silvia sulle labbra. Dio che labbra dolci che aveva e quanto le amavo. Profumava di primavera e risate anche quando, sensibile com’era, si addombrava in un angolo per lamentarsi delle ingiustizie del mondo ed io amavo tutto di lei.
Mi mosse il desiderio di proteggerla, di salvarla, di donarle verità. Mi mosse il bisogno di essere un buon padre per le mie bambine, che meritavano solo gaiezza e libertà.
A quel punto, i miei sospetti erano diventati infinitamente più grossi della mia possibilità di indagare, da solo, partendo dal luogo in cui vivevo, quindi quando venni contattato da altri insospettabili resistenti, sperai di trovare le sponde giuste, la collaborazione necessaria per fare risplendere alla luce del giorno, verità che mettessero fine a quella cazzo di dittatura. Una dittatura, con tanto di ritorsioni se ti ribellavi, che ci soffocava da quasi due mesi e che mi puzzava di marcio da ogni prospettiva la guardassi. In ogni caso, la consideravo democratica e civile più o meno come la ghigliottina.
Così, clandestino, salii sulla mia auto pronto a mentire sulla destinazione e sulle ragioni del mio viaggio. Mi sentivo un partigiano.
Arrivato nella capitale, venni risucchiato da un nucleo operativo nella periferia di Roma, dove con le mie stesse tempistiche, altri pazzi di varia età, avevano sviluppato un’avversione per le soluzioni sanitarie di tipo militaristico e gravemente restrittivo che il governo stava adottando.
“Benvenuto a Riva-Est” mi aveva detto un ragazzo, giovane, poteva essere mio figlio se avessi proliferato presto. Un appartamento spoglio, con tanti posti letto, caos, una cucina che profumava di cena messicana appena consumata. Sarebbe stato, anche per me, casa e non avevo idea per quanto tempo.
A Riva-Est ho scoperto un esperimento di comune, inteso come luogo di condivisione dove diversi individui cercano di esistere senza pestarsi i piedi. Si tratta di un modello in cui non ho mai creduto, se non immaginando punkabbestia anni ‘90 che dopo poco si scannano per il primo turno in bagno.
Invece, può esistere e funzionare davvero: basta avere una fissa che ti ossessioni. Basta essere completamente rapiti da qualcosa che ti svia dal fastidio per gli abiti di altri lasciati in giro, che ti rende il russare di tizio quasi accogliente come la cantilena di un grillo, che attenua la tua percezione degli altri trasformandoli in fantasmi capaci solo di attraversarti. Era la nostra comune e ci stavo bene perché la mia ossessione era tronfia, piena. L’ossessione, la paranoia per le vere ragioni di quello stato d’assedio in cui vivevamo: ti dicevano che stare tappato in casa, fermare le attività lavorative, la socialità, il movimento stesso dei corpi, era un atto d’amore verso i tuoi simili. Un “atto d’amore” lo chiamavano e io mi sentivo divorare dalla smania e dalla rabbia.
La sera pianifichiamo il lavoro, ovvero sbattevamo la testa contro il muro senza sapere dove e come agire. La maggior parte delle volte cominciavamo con atteggiamento risoluto e idee chiare, per finire dopo poco a lamentarci della quarantena, della crisi economica in corso, e poi deprimerci allegramente sul futuro che nessuno riusciva davvero ad immaginare.
Certo, a quel tempo non facevamo nulla di male o di gravemente illegale. Consideravo la mia come una vacanza per intessere un lavoro più fitto di indagini a tappeto e mi divertivo anche, nonostante fossi tra i meno giovani.
Io ero chiamato il moderato. Figuriamoci gli altri. Il mio cruccio si articolava attorno ad una gigantesca frode ai danni del popolo italiano, qualcosa di già visto prima, eppure mai dimostrato. Una violazione di tale immoralità da non poter essere quantificata e che di solito si configura come cospirazione. Gli altri portavano avanti le loro tesi, una più inquietante dell’altra, con picchi di ansia tra l’ipotesi di invasione aliena e la teoria della morte assistita collettiva.
Mi divertivo, sì e fin troppo, forse. Quando erano passate tre settimane dalla mia partenza e tre mesi e mezzo dall’inizio della pandemia dichiarata, tradii Silvia.
Ogni giorno chiamavo Silvia e mi dicevo di dover confessare e ammettere di essere un quarantenne ancora in balia del suo pene. Ammettere di non aver resistito al fremito per le avances di una ragazza giovane ed estremamente aggressiva nel prendersi ciò che vuole. Probabilmente, e come mi capita spesso, ho fatto troppo lo spaccone e lei, Linda, mi ha preso sul serio. Un po’ convinta dal mio modo di atteggiarmi al più figo e un po’ per punirmi, una sera non mi ha dato tregua e mi ha messo sotto. Letteralmente.
Dire questo a Silvia però non era pensabile, non sarebbe stato giusto. Le avrei spezzato il cuore facendola sentire più stupida di me, solo per avermi scelto come marito e padre dei suoi figli. Uno stupido incapace di controllarsi: meglio tacere e tirare dritto.
Ero ancora frastornato dalla magagna con Linda quando, arrivati i primi di maggio, il decreto venne rinnovato. La reazione delle persone fu di chiedere misure sempre più restrittive. L’illusione che fossero queste a terminare l’emergenza li rendeva più autoritari ed oppressivi, squadristi in cerca di untori dalla mattina alla sera.
I contagi erano ancora numerosi, dicevano, ed era tutta colpa di quei quattro gatti che riuscivano ogni tanto ad andare a prendere il pane intrattenendosi con un vicino, o a correre in un campo.
A Roma, grazie al simpatico surriscaldamento globale c’erano già giorni che non si respirava più. Stavo pensando di tornare a casa, fallito e infedele. L’infedeltà, forse, mi aveva fatto sentire ancora più incapace, mentre realizzavo che tutto il materiale raccolto per denunciare le nefandezze del sistema, restava nell’ambito dell’inutile prova indiziaria.
La buona notizia di quei giorni però, era che, tra i sempre troppo pochi insubordinati che spuntavano da ogni dove e che si univano alle file di gruppi come il nostro, erano stati arruolati degli hacker di chiara fama e curriculum da spavento. E allora sì, che ne avremmo viste delle belle.
“Ragazzi, oggi il Presidente farà una dichiarazione!”
Finalmente. Si sudava troppo e le speranze di sopravvivere mentalmente a quella prigionia diventavano sempre più rade. I casi di contagio si contavano solo con le decine, messaggi come “Stiamo vincendo la guerra!” circolavano da addetti sanitari, insomma si sentiva nell’aria il profumo di quella dannata primavera che ci avevano fatto sudare.
“Carissimi concittadini…”, il premier si schiarì la gola e di nuovo, non aveva un bel sorriso rasserenato sul viso. “La nostra battaglia contro la diffusione del virus H15N7 è da considerarsi... vinta.”
Una esplosione di applausi, il fragore dalle finestre di ogni strada, come quando segna l’Italia.
Mantiene serietà e compostezza, riprende fiato, il ciuffo non gli si scompone. “Ma non è vinta la guerra. Questa esperienza ci ha insegnato una grande lezione. La nostra società non era preparata. La nostra società ha rischiato di scomparire perché non era pronta”
A Riva-est non si stava nella pelle, qualcuno aveva già messo il giubbotto pronto ad uscire di casa, ben sapendo che non era ancora il momento di riversarsi nelle strade. Commentavamo, gioivamo, qualcuno imprecava, e apparve del prosecco. Stavo versando in bicchieri di carta, senza già più prestare orecchio al discorso.
“La nostra società non era abituata ad affrontare un virus, che circola e si replica velocemente e che si diffonde proprio attraverso il nostro stile di vita sociale.”
Il primo a gelare fu Michele. Lo vidi sedersi più vicino al monitor, questo attirò la mia attenzione.
“Abbiamo imparato che per ora siamo impotenti, non essendoci vaccini, contro tanti, troppi agenti patogeni che per mille ragioni si stanno diffondendo e diffonderanno nei prossimi anni. E’ per questo, che l’Unione Europea sta lavorando per garantire la massima sicurezza delle nostre popolazioni. Dovremo fare ancora molti sforzi, sacrifici, ed essere uniti, perché la minaccia è sempre più presente e più grande. Dovremo rinunciare a qualcosa e cambiare il modello di vita a cui eravamo abituati, cambiando quelle abitudini sociali che hanno favorito la diffusione del virus e che ci hanno esposti tutti a grandissimi rischi ed anche a molta sofferenza.”
Sembrò inverno, con le finestre aperte.
“Per tale ragione ho firmato un decreto, atto a mantenere le misure di contenimento attive ancora per il tempo necessario a far sì che il nostro paese si adegui, adotti a livello strutturale i cambiamenti che ci ha imposto questa brutale lezione e trasformi in norma vigente e ordinaria le norme straordinarie fin qui adottate e che ci hanno permesso di uscire dalla crisi.”
Gli altri sono di là, dal silenzio sembra che siano tutti morti. In realtà sono sotto shock, come me.
Mi guardo allo specchio, un mobiletto di plastica degli anni ottanta. Mi vedo invecchiato, con rughe e capelli sempre più bianchi.
Devo decidere quale sarà il mio prossimo pensiero.
Questa è la mia storia e questo è soltanto l’inizio.