giovedì 15 aprile 2021

"Libero Stato di Paura" di Eva Melodia

In Libero Stato di Paura non si sta poi così male. A primavera si entra in cella dalla porta e non, come in autunno, passando tra le sbarre, che sono così strette che può succedere di rompersi una clavicola.

Si riesce ad avere due o tre metri quadri a testa, ossigeno a sufficienza, e per sedersi sulle brandine fai turni di venti minuti. Quindi, ogni due ore, ti ritagli il tuo spazio, e puoi anche appoggiare la schiena al muro.

Per legge, da qualche anno, puoi portarti un cuscino, perché l’azienda che li forniva è fallita. Ti agevolano così.

Quando viene il momento di partire, io sono sempre tra le prime ad essere pronta. Preparo con cura ciò che può servirmi nei mesi di permanenza, poiché possono diventare anni e voglio avere tutto in ordine. Mi porto fogli per scrivere e matite per dipingere, perché ho notato che in cella le parole diventano fluide e i disegni oleosi. Tutto è più facile.

Pian piano che i mesi passano, arrivano le persone nuove, sempre diverse.

Fai amicizia, ma l’ossigeno diminuisce e devi trattenere un po’ il fiato. Poche parole, tanti sorrisi di complicità.

Dicevo che le porte non si aprono che verso l’interno, in inverno, quando siamo così tanti da dover stare stretti al vicino e respirare contando fino a sette. Un perdonabile errore di progettazione, certo, ma anche mangiare la frutta diventa complicato se per alzare un gomito devi chiedere “Permesso!” con la voce di testa. Per fortuna la frutta profuma talmente, da colorarti le guance.

Ogni tanto qualcuno vola via. Si svuota il soffitto rivelando le stelle, e attaccato al laccio di un palloncino trasparente, vedi il corpo sparire nel buio, verso il manto dorato della luna. Gambe e braccia e testa diventano un puntino in lontananza e tu sai che starà di certo guardando i pesci dentro al palloncino.

Succede sempre di notte, ogni notte, dopo notte.



DISEGNO di Lospazioideale

Gentilmente realizzato sulle parole. (Grazie Alessandra Nemour, hai una mano meravigliosa)

giovedì 8 aprile 2021

"Big Johnny" di Eva Melodia


Big Johnny è un mio amico immaginario.

Guardava fuori dalla finestra quando veniva il mattino. Lasciava le persiane aperte perché il cielo entrasse nella sua stanza, per vederne e sentirne il buongiorno se anche, carico di nuvole o di tempesta, qualche volta appariva minaccioso.
La madre lo svegliava con profumo del caffè tostato. Lui non resisteva e correva giù in cucina a mangiare biscotti, altrimenti avrebbe dormito fino a tardi cullandosi nei sogni. Sognare, in fondo, era l’apice della felicità a lui concessa, l’unico modo che aveva di immergersi in quel giovane stupore che chiamava amore.
La madre lavorava di inganni e profezie. Una fila di piagnistei e speranze, di volti affranti e fazzoletti in testa, si accalcava fuori dalla porta tutti i giorni, mentre la zia offriva l’acqua e raccoglieva le offerte prima che se ne andassero, soddisfatti e più sereni.
Appena fatta la colazione, fuggiva. Eludeva i loro sguardi e le loro domande, invasori della casa e della sua anima e tornava solo al momento della quiete ritrovata, nel limbo di penombra senza vociare e senza la zia, quando apparivano i profumi del pranzo e i soldi erano ben contati sulla madia. Poteva prendere duemila lire una volta a settimana. 
Chiamava giardino uno straccetto di terra frequentato solo da cani e dal loro bisogno di evacuare. Portava lì il suo pastore, amico e confidente, per godere della sua stessa gioia di annusare l’essenza della terra. Poteva vedere attraverso i suoi occhi gli insetti, tra un buchino e un filo d’erba e osservare il piacere di scondinzolare ad un’altra cagnetta, sempre la stessa: Kira, la dalmata, dal saltellare aristocratico. 
Con lei, ogni pomeriggio, giungeva allegra una bambina del primo piano. Si chiamava Anna e quando questa gli rivolgeva la parola, lui rispondeva con voce mesta, titubante, per il timore di spaventare. 
Non parlava mai per primo. L’asfalto sotto i piedi era l’unica cosa che calpestava senza chiedersi quanto ne avrebbe patito.
A nulla valeva che tutti dicessero, o sapessero, quanto era bravo a scrivere del mondo e di poesie. Non osava disturbare, tanto meno i bambini, proteggendo la loro quiete.
Questo era Big Johnny, che voltava ogni giorno le spalle al giardino e si impressionava del maestoso castello. Credeva e diceva, che mai nessuno e in nessun luogo, poteva vantare lo stesso portento di architettura e dominio, eppure non era mai andato da nessun’altra parte.
Poi, pesante, tornava a casa passando sotto i portici di via Rovello.
“Madre, cosa fanno lì sotto quelle signore?”. Il rosso fiamma dei loro capelli gli confondeva le idee e quando passava loro in mezzo, avrebbe voluto essere polvere per soffiarsi via, sparire tra le colonne della galleria e non udire i loro aciduli commenti. “È strano”, “è lento”, “è rallentato” e a nulla serviva saper d’essere stato il primo della classe in disegno e matematica.
“Attendono che aprano i negozi”.
Ogni giorno attendevano.
Ogni giorno lui usciva cercando l’aria e l’indipendenza nel giretto attorno all’isolato, crescendo in un corpo sontuoso, diventando talmente possente da esser l’ombra che oscura il sole se ti guardava dall’alto. 
Di rosso qualcosa aveva sempre, anche lui. Un laccio, meglio di niente, a ricordo del padre partigiano e anziano, morto prima che lui ne avesse memoria. I tanti racconti dell’uomo buono che era stato e dell’amore per quel figlio inaspettato servivano a poco, giacché la mente fatica ad immaginare una carezza mai sentita.
Quelle donne erano sempre lì, dalle cinque in poi, ad attendere. I negozi non aprivano mai, ma non c’era noia nei loro sguardi. Le chiacchiere erano sottili, vocii, risatine, grandi sorrisi quando una entrava in un’auto e andava via.
Non capiva e non osava chiedere. Per chiedere serve essere amici e di amici non ne aveva. Studiava e basta e magari un giorno avrebbe capito anche la strana storia dei negozi sempre chiusi.
Il tempo lineare non è, se non vivi come gli altri. Ti stagna, ti annoia, si arrotola su se stesso, ma lo stesso un giorno una bella sorpresa arrivò anche per lui: il giardino non era più un piccolo frastaglio di terra rasato d’erba, ma una grande aiuola di rose bianche.
Ne colse la più bella un mattino di giugno, per porla a riposo in acqua fresca.
Il pomeriggio è arrivato presto, prestissimo. L’emozione sale e gli secca la lingua.
La camicia stirata è sul letto e lo guarda, gli predice il futuro, come la mamma. 
La indossa, si osserva in quello specchio pieno di macchie, di ruggine, che era della nonna e viene dalla campagna. Il sorriso che vede ora è di un uomo.
Lei ormai pervade ogni notte, le stelle e la luna, quando invano attende di cadere addormentato. Lei è la voglia dell’uomo che è diventato e che non chiede e non pretende perché tutti dicono “è lento”. Non importa che in storia abbia sempre preso dieci.
Si alliscia i pantaloni. Scalini di pietra, pietra vera, la luce nell’antico vano è traballante. Esce nel cortile, percorre piano l’androne fino a varcare la soglia del portone ed è in strada.
Pochi metri ancora.
S’appresta per non perdere il coraggio, letteralmente. Poi rallenta. La paura lo domina, il timido suo essere si vorrebbe inginocchiare. 
Ormai tutte lo guardano, aprono un varco tra i loro pettegolezzi e suggerimenti di rossetti e minigonne, pensando che debba passare oltre. Così si avvia a testa bassa, non regge i loro aggressivi occhi dipinti di colori sgargianti.
D’improvviso si volta e a lei, che è come la porcellana, offre il dono. Lo stelo è ancora croccante, la rosa ancora di un candore perfetto.
Lei fa un passo indietro. Non è felice, non è contenta, non accoglie e si ritrae.
Meglio abbassare gli occhi e la testa ancora di più, come dice la mamma, per chiedere scusa, che è sempre buona cosa. 
“È solo una rosa”, ammette, ritraendo un po’ il nunzio fiore e lei lo guarda tanto, per capirlo e per un tempo lunghissimo. Tutte le altre zitte, sospese, ad attendere il sipario.
Poi il sorriso della ragazza si aprì e con delicato gesto intrecciarono le dita, passando il fiore da un palmo all’altro.
“Grazie”. Una sola parola che vola e si posa sul cuore, per sempre. 
Di tanta bellezza che Dio le aveva donato non sapeva che farsene, ora che serviva cura e gentilezza e lei l’aveva dimenticata, su di sé e sul mondo, prestata com’era all’essere merce nel corpo di puttana.
“Domani ti porterò una torta” le promise lasciando il proprio incanto alle spalle, felice di averla sfiorata almeno una volta, immaginando già un risveglio senza cielo.
Infatti, lei non si vide più. Per mesi, ogni giorno era stata sotto i portici di via Rovello, Milano, con pioggia e vento, inverno e primavera.
Non si vide più.
Qualcuno spiegò a Big Johnny che raccontare la sua storia non avrebbe cancellato quel dolore, ma lo avrebbe reso sopportabile, come i reumatismi. Così io l’ho scritta e l’ho letta la notte del suo ultimo sonno.

Credits: Guido Moroni per "Castello Sforzesco"

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